Il transfert (o traslazione) è un meccanismo mentale per il quale ogni individuo tende a spostare schemi di sentimenti e pensieri relativi ad una relazione significante su una persona coinvolta in una relazione interpersonale attuale. Il processo è largamente inconscio, il soggetto non comprende completamente da dove originino tali emozioni, sentimenti e pensieri.
Il transfert è fortemente connesso alle relazioni oggettuali della nostra infanzia e le ricalca. Il transfert è presente in ogni tipo di relazione interpersonale; per il trattamento terapeutico rappresenta la sua cornice, all’interno della quale emergono le rappresentazioni e le immagini del paziente. In psicoanalisi questo meccanismo naturale viene utilizzato per i processi della terapia.
Il transfert è una normale proiezione che può essere positiva (transfert positivo), con connotazioni di stima, affetto, amore per il partner della relazione, oppure avere una valenza negativa (transfert negativo) quando le emozioni messe in gioco dal transfert sono per lo più di competitività, invidia, gelosia, aggressività.
Nell’ambito del colloquio clinico, nella relazione tra analizzato e analista, viene comunemente usato il termine di transfert al posto di quello di proiezione (ossia l’attribuzione, riconoscimento cosciente, dei propri sentimenti e affetti non accettati all’esterno, su un altro oggetto o sull’intero ambiente. Opera di frequente assieme alla scissione delle proprie qualità ritenute “buone” e “cattive”, ed in cui vengono proiettate all’esterno le ultime. Meccanismo alla base della paranoia. La proiezione è il processo per cui qualcosa di interno viene considerato proveniente dall’esterno. Nelle sue forme positive e mature, è la base dell’empatia. Nelle sue forme sfavorevoli, la proiezione provoca pericolosi fraintendimenti e profondi problemi interpersonali).
La relazione tra analista e analizzato è infatti paragonabile a una qualsiasi storia d’amore, dove forze di attrazione e anche forze di repulsione hanno modo di dispiegarsi.
In questo gioco di forze emotive affettive anche l’analista è pienamente coinvolto, si parla di controtransfert per intendere la reazione immediata emotiva e affettiva al transfert del paziente da parte di chi dovrebbe sostenere la funzione.
- i problemi irrisolti dell’analista e
- le sue relazioni ai transfert del paziente.
Carl G. Jung e Wilhelm Reich, entrambi membri del circolo interno freudiano, in un secondo momento presero le distanze da lui per motivi teorici. Reich ampliò le categorie diagnostiche includendovi il masochismo e la schizofrenia, e polemizzò con l’idea freudiana dell’esistenza di un istinto di morte. Inoltre sottolineò il possibile danno arrecato al rapporto terapeutico qualora gli analisti fossero inconsapevoli delle proprie emozioni (Reich 1933).
Jung avanzò l’ipotesi che l’analista fosse uno schermo disponibile alla proiezione e che il transfert avesse origine da un’attualizzazione nevrotica del passato del paziente. L’analista doveva affrontare, indagare e integrare questo materiale. Riteneva anche che l’analista fosse in analisi tanto quanto il paziente. Data l’interazione fra due sistemi aperti, la difficoltà consisteva nell’esigenza che il cambiamento avvenisse in entrambi i sistemi. Il terapeuta, addossandosi con pronta intelligenza e buona volontà la carenza psichica del paziente, si espone ai contenuti che premono dall’inconscio, e quindi anche alla loro azione induttiva. Siccome il paziente porta al terapeuta un contenuto attivato dall’inconscio, anche nel terapeuta viene costellato, per un effetto di induzione che nasce più o meno sempre dalle proiezioni, il materiale inconscio corrispondente. In tal modo terapeuta e paziente si trovano in un rapporto fondato su una comune incoscienza (Jung 1946).
Questo processo che rende possibile l’identificazione, tanto proiettiva (processo di proiezione delle qualità percepite come “cattive” dell’Io sull’oggetto relazionale, e successiva identificazione al fine di esercitare un controllo, spesso aggressivo su di esso. Proiettando sull’altro le proprie qualità inaccettabili, l’Io può sviluppare l’illusione di poterle dominare dall’esterno. È un meccanismo di difesa complesso, che opera in seguito ad una scissione), che introiettiva, (per identificazione introiettiva si intende la modalità attraverso la quale la realtà esterna viene da noi assimilata e che, con il passar del tempo, modifica i nostri modelli percettivi), è la base di quell’empatia tanto necessaria per la terapia.
L’analista introietta le proiezioni del paziente in quanto organo ricevente, e può trovare una soluzione scoprendo in se stesso la propria relazione con lui. L’analista avrà sempre bisogno di analisi, sulla base dell’idea junghiana di inconscio collettivo, esso è infinito, abbiamo in comune la nostra umanità. Abbiamo i “ganci” su cui si innestano le proiezioni del transfert.
Non possiamo influenzare i nostri pazienti se non siamo disposti a farci influenzare da loro. Jung sottolineò più volte l’universalità del controtransfert e del transfert, interattività reciproca del processo terapeutico. (Patrizia Moselli, Il guaritore ferito, Franco Angeli, Milano, 2008, cap. II° – pag. 53)
Nell’analisi bioenergetica è sempre prevalsa quest’ultima impostazione ed il controtransfert è stato considerato un indispensabile strumento diagnostico e terapeutico. Per Alexander Lowen transfert e controtransfert sono il ponte attraverso il quale le idee e le sensazioni fluiscono tra due persone. Nella terapia bioenergetica il contatto fisico mette più chiaramente a fuoco sia il transfert che il controtransfert e richiede anche una maggiore abilità dell’analista nel trattare le risultanti tensioni emotive.
Se un paziente si sente capito, si costruisce tra lui ed il terapeuta un legame asimmetrico, il terapeuta aiuta ed il paziente è aiutato. In questa profonda relazione di aiuto il terapeuta “tira” il paziente oltre la sua confusione, che deriva dall’incapacità dei suoi genitori a considerarlo come un bambino, un essere umano libero ed immerso nella natura, senza la malizia dei costrutti di noi adulti. In questo modo il suo processo di crescita si è intriso dalla sensazione di essere sbagliato, d’essere colpevole, cattivo, ostile, ingrato, ed ogni altra considerazione negativa, compresa quella di considerarsi un mostro. Proprio perché i suoi genitori non lo accettavano per quello che era veramente, cioè un essere innocente, ha dovuto credere che ciò che dicevano di lui fosse vero. Se un bambino non è amato, si sente inadatto ad essere amato. Sentendosi inadatto ad essere amato, non è amabile e quindi incapace d’amare.
In una tale situazione, dire al paziente che può essere amato, che tutto va bene, significa essere cieco alla sua confusione, al suo dolore ed alla sua disperazione. Non sentire la sua rabbia, spesso presente sotto forma di rabbia omicida, significa fallire nella comprensione della lotta del paziente per trovare la sua identità ed il suo Sé. Il terapeuta potrebbe rimanere nella posizione di considerare che sta al paziente rivelare e descrivere il suo problema interiore; ma se un paziente potesse fare ciò, perché avrebbe bisogno dell’aiuto di un terapeuta? I pazienti sanno che c’è qualcosa che va male, perché non si sentono bene e non sono in grado di venirne a capo, ma sono confusi.
Agire in contrapposizione a queste richieste, ribellarsi all’autorità non apporta una migliore soluzione. Sia l’uno che l’altro di questi atteggiamenti portano ad una lotta che perpetua la disperazione. Il problema è che il paziente ha perso o abbandonato il suo Sé e non ha una guida interiore che lo aiuti ad agire in un modo positivo per se stesso. Sentendosi confuso, si rivolge a un terapeuta in modo da essere guidato nella ricerca del suo Sé. In questa ricerca il terapeuta è una guida. Ma una guida è valida solo nella misura in cui ha familiarità con il terreno attraverso il quale dovrà guidare la persona.
Acquisirà questa conoscenza solo se avrà personalmente esplorato questo terreno ed avrà trovato la via per raggiungere il proprio Sé; cioè quel Sé che ha abbandonato quando, bambino, ha perso la sua innocenza. Perdendo l’innocenza ha perso anche la capacità di vedere con gli occhi chiari e innocenti del bambino.
Ci sono pazienti che non desiderano mostrare e lavorare con il corpo, tuttavia, è possibile lavorare come terapeuti bioenergetici osservando il corpo nelle sue manifestazioni spontanee: la postura, la gestualità, il tono della voce, la simmetria o l’asimmetria di più parti del corpo, soprattutto del viso, l’armonia o la disarmonia delle regioni del corpo, etc. Il rifiuto ad esporsi e rivelarsi nella relazione terapeutica è un’espressione di resistenza e di transfert, può essere considerato come una diffidenza verso il terapeuta. Diffidenza giustificata quando sono in atto situazioni sconosciute controtransferali, dove i corpi sono osservati come oggetti sessuali. Se il terapeuta non è a suo agio nel suo corpo e con i sentimenti che prova, eviterà, consciamente o inconsciamente, d’avere a che fare con il corpo e i sentimenti dei suoi pazienti. Così, se il suo corpo è rigido, avrà la tendenza ad ignorare la rigidità che è presente nel corpo del paziente. Se il suo viso è teso e mascherato, eviterà di confrontare il paziente con un’espressione simile presente sul suo volto. Se il suo corpo manca di agilità e di grazia, sarà restio a portare l’attenzione sulla mancanza di grazia e di agilità del corpo dei suoi pazienti. Se presta attenzione a queste perturbazioni nel suo paziente, dovrà poter considerare le sue deficienze allo stesso proposito. Nella misura in cui ignora i suoi problemi corporei, sarà cieco a quelli dei suoi pazienti. Si tratta di controtransfert, poiché ciò significa che il paziente è considerato in funzione dei valori del terapeuta. Se un terapeuta pensa che le emozioni devono essere controllate, proietterà questa credenza sul suo paziente, esplicitamente o implicitamente. Ma il suo tono di voce piatto e controllato trasmette un messaggio che il paziente non può ignorare. Dall’altra parte, se il terapeuta presenta un’attitudine che esprime che ogni emozione è accettabile, influenzerà il paziente che è portato ad una tale attitudine. Molti pazienti comunicano di non poter esprimere sentimenti intensi perché temono che il terapeuta non sia stato in grado di comprenderli e gestirli. Poiché la stessa cosa accadeva nella loro infanzia, sono preda del medesimo dilemma e si trovano nello stesso conflitto che avevano vissuto da bambini.
Vi sono dunque due aspetti nel problema del controtransfert: uno è un’incapacità a vedere il paziente per com’è veramente, e l’altro è la proiezione inconsapevole dei valori del terapeuta sul paziente e la terapia. I due aspetti derivano dallo stesso problema del terapeuta, cioè dal sapere che è stato strutturato dalla sua storia e dalla sua formazione, che gli hanno rubato l‘innocenza e distrutto la sua libertà.
Una psicoterapia che crede nel potere dello spirito razionale per guarire la malattia dell’anima dell’uomo moderno è irreale. Ignora il ruolo potente delle emozioni nella vita umana e il fatto che le emozioni sono la vita del corpo, come i pensieri sono la vita dello spirito. Non si possono creare sentimenti attraverso un processo mentale. Nessuno può innamorarsi attraverso un qualsiasi atto del pensiero consapevole. Non possiamo provare rabbia con un atto di volontà. Ed evidentemente, non possiamo provare gioia con un qualunque tipo di ginnastica mentale.
Il pensiero consapevole può sopprimere il sentimento, ma non può provocarlo.
Ciò non significa che il pensiero non ha alcun ruolo nel processo analitico, ma ciò significa che questo ruolo si limita alla comprensione di ciò che è accaduto. Il cambiamento può avvenire solo se una forza ed un’energia sufficiente sono mobilizzate per eliminare i legami che imprigionano lo spirito.
Questi legami sono fisici ed esistono nel corpo sotto forma di tensioni muscolari croniche, che bloccano il completo fluire dell’eccitazione nel corpo così come la completa espressione dei sentimenti. La riduzione di queste tensioni cambia la forma e la motilità del corpo. La sua forma diventa più bella ed il suo movimento più aggraziato. E’ solo nella misura in cui possiamo osservare questi cambiamenti nel corpo che possiamo parlare di significativo miglioramento.
Se il problema del controtransfert risiede nell’incapacità del terapeuta di vedere le realtà della vita del corpo, questo è anche il problema del paziente in termini di transfert. Il cambiamento può avvenire solo quando il paziente acquisisce la capacità di capirsi e sviluppa un vero amore per se stesso. La comprensione e la cura del terapeuta sono condizioni necessarie perché ciò accada, ma non bastano a produrre il risultato desiderato. Il paziente non può ricevere e rispondere all’amore ed alla comprensione del terapeuta perché è chiuso in forti tensioni muscolari croniche che gli impediscono di aprirsi a tali sentimenti.
Nella nostra cultura, quasi tutti i bambini soffrono di una certa quantità di mancanza di contatto e di sostegno amorevole da parte dei genitori. La lamentela più comune dei pazienti è che la loro madre, o il loro padre, non era lì per loro quando ne avevano bisogno. Questo sentimento di bisogno dell’altro è trasferito sul terapeuta o, nella relazione di coppia, sulla moglie o sul marito. Il bisogno dell’altro non può essere soddisfatto annullando se stessi in una relazione adulta, occorre incontrare l’altro stando su di sé e in contatto con sé, in modo differenziato e non fuso.
La fusione emotiva illustra l’intolleranza verso i confini e la separazione dalle persone che amiamo. Il desiderio di possedere il nostro partner è in se stesso frustrato dal fatto immutabile che siamo due persone fondamentalmente separate (benché interrelate). E’ possibile osservare la fusione emotiva dai danni che facciamo nelle relazioni, nell’incapacità di separarci, di lasciar perdere quando siamo nervosi. Gli avvenimenti più celebrati dai media sono spesso delle storie tragiche che implicano una fusione emotiva, come il caso della signora che ama ancora il marito dongiovanni da decenni e crede nella sua innocenza contro ogni evidenza, o, nei casi più gravi, la tragedia celebrata nel famoso film: “La guerra dei Roses”.
La differenziazione comporta l’equilibrio di due forze vitali basilari: la spinta all’individualità e la spinta alla relazionalità. L’individualità ci spinge a seguire le nostre direttive, a stare per conto nostro, a creare un’identità unica. La relazionalità ci spinge a seguire le direttive degli altri, ad essere parte del gruppo. Quando queste due forze vitali, verso l’individualità e la relazionalità, sono espresse in modo equilibrato e sano, il risultato è una relazione significativa che non si deteriora in fusione emotiva. Abbandonare la propria individualità per restare uniti è a lungo termine fallimentare, come abbandonare la relazione per mantenere la propria individualità. La differenziazione quindi è la capacità di mantenere il senso del Sé quando siamo emotivamente e/o fisicamente vicino agli altri, specialmente quando essi diventano sempre più importanti. Riguardo la sessualità tra partner d’amore, certamente il sesso può essere “farò questo per te se tu farai quest’altro per me”, ma che misero mercanteggiamento. Una carezza dovrebbe dire “ti amo”, non saldare un debito. Un abbraccio dovrebbe riempire il cuore come le braccia. (Daniel Schnarch, 1977, La passione nel matrimonio, Cortina Edizioni, Milano, 2001, pag. 155)
Nella terapia, di fronte a questo meccanismo di sradicamento occorre riconoscere il livello di bisogno riferito all’altro e provato dal paziente, ma facendogli notare che ciò di cui ha bisogno, in realtà, è di se stesso (in un processo che parte dalla fusione verso la differenziazione). Se una persona può ricorrere a se stessa, non ha bisogno dell’altro. Può sentire di desiderare d’essere vicina agli altri, anche molto vicina ad un altro in particolare, ma non c’è disperazione in questo desiderio.
Il fine della terapia, e in modo particolare dell’analisi bioenergetica, è di aiutare l’individuo a scoprirsi da solo. Così facendo perverrà prima alla consapevolezza di sé, come base per avanzare verso l’espressione, fino a raggiungere la padronanza di se stesso, del proprio vero Sé. La chiave di questo lavoro è il corpo, che è la persona nella sua interezza. Man mano che il corpo diventa più vivo, la persona lo sente maggiormente ed è più spontanea nell’espressione dei suoi sentimenti, così come è più identificata e più padrona delle sue azioni.
Dott. Cosimo Aruta
Psicologo, Psicoterapeuta, Analista Bioenergetico,
Iscritto all’Ordine degli Psicologi della Lombardia con il n° 12147