Per entrambi i sessi la figura materna è il primo modello cui riferirsi. Il bambino maschio per poter formare un primo nucleo di identità di genere dovrà disidentificarsi dalla madre. A differenza della bambina femmina, lui non dovrà cambiare l’oggetto d’amore nella fase edipica, tuttavia sarà un suo preciso compito di sviluppo modificare l’oggetto di identificazione.
Da questo percorso differenziato tra bambini maschi e bambine femmine consegue che le bambine sviluppano un’identità di genere più stabile e continua, ma hanno maggiori difficoltà a raggiungere indipendenza e separatezza, mentre i bambini acquisiscono maggiore autonomia e separatezza, ma un’identità di genere meno sicura e stabile (Nancy Chodorow 1995, citata in Manuale di psicologia dell’adolescenza: compiti e conflitti, Franco Angeli, Miano, 2015, Elena Riva, pag 129). Queste differenze sono accentuate dai modelli educativi e dalla cultura familiare che spinge le bambine a sviluppare maggiori competenze nelle relazioni e i bambini ad impegnarsi nelle attività motorie e prestazionali. Il bambino maschio si rivolgerà al padre per attuare il progressivo distacco dalla madre nelle fasi del processo di separazione e per orientarsi verso il genere maschile. La sola presenza del padre non è sufficiente a far fluire l’identità maschile al bambino, è fondamentale l’attribuzione di valore della mascolinità da parte di entrambi i genitori.Padre e madre dovranno essere uniti nel trasmettere il proprio orgoglio e soddisfazione sia nel riconoscere la mascolinità paterna, sia la mascolinità in formazione del bambino. Per un bambino è veramente difficile riconoscere la propria mascolinità se quella del padre non è riconosciuta con orgoglio e piacere dalla madre Si tratta di un passaggio veramente determinante, il clima familiare, espresso soprattutto dalla armonia e dal piacere dei due genitori nel riconoscimento della sessualità, condizionerà il destino del bambino nel processo di introiezione dei modelli così rappresentati. Se la figura paterna di riferimento è assente nella vita affettiva del fanciullo, oppure svalutata e “demonizzata” dalla madre (es. non diventerai mica come tuo padre!), gli elementi di separazione dalla madre e la funzione normativa maschile, importanti per formare l’identità di genere, non potranno essere interiorizzati in modo funzionale. Una madre critica e dominante che rifiuta la mascolinità maschile e in particolare del marito/compagno, evocherà nel bambino la paura di essere sottomesso e privato della stima materna. In questa situazione sarà molto difficile per il piccolo disidentificarsi dalla madre e identificarsi con il maschile. L’interiorizzazione di un’immagine maschile svalutata interviene anche nel periodo adolescenziale, impedendo una naturale identificazione con la funzione paterna e l’assunzione dell’identità maschile. La fase dell’adolescenza tuttavia offre al ragazzo una seconda opportunità, anche se non propriamente adatta alle sue esigenze come vedremo, fruibile in relazione alla profondità della ferita riportata nella fanciullezza. Di fronte all’assenza di un modello maschile paterno in grado di sostenere l’identità virile in formazione e definizione, l’adolescente maschio può orientarsi verso il mondo dei coetanei per interiorizzare i valori dell’identità di genere. Nella relazione fra i pari saranno enfatizzati gli elementi stereotipati e caricaturali, tipici dell’età. Il gruppo maschile adolescenziale tende ad esprimere i valori maschili del “macho” e del “bullo”, che insiste sulla comprensibile negazione del bisogno, della passività e della dipendenza infantili, temuti perché riportano al legame primario con la madre. Non avendo potuto contare e ricevere sostegno e incoraggiamento dai genitori, per l’adolescente è fondamentale esprimere la posizione di colui che sa farsi rispettare e può cavarsela da solo. Il gruppo dei ragazzi che sostituisce il padre nel legittimare l’identità di genere non è in grado di favorire l’integrazione dell’aggressività, questo “fallimento” può sfociare in atti aggressivi, proprio perché i valori paterni e quelli aggressivi non hanno potuto avere una naturale integrazione e si trovano scissi, lasciando l’adolescente “povero” degli aspetti di modulazione affettiva. Gli adolescenti aggressivi hanno trovato come unica opportunità di crescita un gruppo di coetanei in grado di offrire appartenenza, solidarietà e complicità, ma non in grado di prendersi cura in modo empatico dei reali bisogni del ragazzo per sostenerne la crescita. Queste ultime funzioni sarebbero per definizione parentali e non delegabili a terzi. Si evidenzia quanto sia importante il ruolo della madre nella formazione dell’identità di genere del figlio maschio. Una madre che non è in pace con il “maschile” avrà molte difficoltà nel favorire l’attribuzione di valore della mascolinità emergente nel bambino.Dr. Cosimo Aruta
Psicologo, Psicoterapeuta, Analista Bioenergetico, Supervisore
Iscritto all’Ordine degli Psicologi della Lombardia con il n° 12147
Studio di psicologia, psicoterapia, consulenza di coppia, mediazione familiare a Milano
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